Il modello “in house providing” nacque nel 1999 con l’emanazione da parte della Corte di Giustizia delle Comunità Europee della sentenza “Teckal” (causa C-107/98 del 18/11/1999) e rappresenta un’alternativa, tuttora valida, all’appalto e alla concessione.

Le amministrazioni pubbliche per la realizzazione delle loro finalità istituzionali possono procedere alternativamente: i) in modo diretto, cioè svolgendo le attività necessarie tramite il proprio personale ed utilizzando i mezzi e le risorse di cui sono dotate (la c.d. gestione in economia), ii) tramite appalti pubblici, selezionando un soggetto presente sul mercato a cui affidare la fornitura di beni o servizi o l’effettuazione di lavori necessari al perseguimento delle finalità istituzionali, iii) mediante affidamento di determinate attività in concessione a terzi, incassando il canone che il concessionario è disposto a pagare per lo sfruttamento economico di un’opera o di un servizio e, infine, iv) mediante affidamento diretto ad una propria società “in house” della gestione di un servizio o della prestazione di determinate attività o della fornitura di specifici beni.

Dal 1999 ad oggi la Corte di Giustizia delle Comunità europee è intervenuta molte volte precisando e delineando le caratteristiche del modello “in house providing”. Nel 2014 i princìpi sanciti dalla giurisprudenza comunitaria sono stati finalmente tradotti in atti normativi con l’approvazione da parte del Parlamento europeo delle Direttive sugli appalti pubblici, recepite in Italia dal Codice dei contratti pubblici del 2016 (il D.lgs. 50/2016, oggi abrogato e sostituito dal D.lgs. 36/2023).

La normativa di riferimento e i presupposti dell’in house

Tralasciando per motivi di brevità l’evoluzione storica del modello “in house providing”, merita concentrare l’attenzione sulla sua disciplina attuale prevista dall’art. 16 del D.lgs. 175/2016, dall’art. 17 del D.lgs. 201/2022, nonché dall’art. 7 del D.lgs. 36/2023.

L’art. 16 del D.lgs. 175/2016 “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica” riepiloga i requisiti fondamentali affermati nel corso degli anni dalla giurisprudenza, comunitaria prima e nazionale poi, che devono sussistere contemporaneamente affinché una società possa essere legittimamente considerata “in house”; in particolare:

  • la società deve avere un capitale sociale interamente pubblico, salvo rare eccezioni previste dalla legge;
  • la società deve operare prevalentemente con l’amministrazione pubblica che partecipa al suo capitale sociale o nell’interesse di questa (o con le amministrazioni pubbliche socie o nell’interesse di queste, in caso di società pluripartecipata da più amministrazioni);
  • l’amministrazione pubblica socia deve esercitare nei confronti della società un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi interni, cioè un’influenza determinante sia sui suoi obiettivi strategici, che sulle decisioni più significative.

Qualora questi tre presupposti sussistano contemporaneamente, secondo la normativa vigente e la consolidata giurisprudenza, fra la società “in house” e l’amministrazione pubblica socia della stessa si crea una relazione interorganica e non intersoggettiva (vedi Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 7093 del 22/10/2021), che di fatto consente all’ente pubblico di affidare direttamente forniture, servizi e lavori senza gara.

Il requisito del “capitale interamente pubblico”

L’art. 5, comma 1, let c) del D.lgs. 50/2016, oggi abrogato dal D.lgs. 36/2023, prevedeva che nella società “in house” non ci doveva essere alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, e tale eventuale partecipazione di soggetti privati non doveva comportare controllo o potere di veto e non doveva consentire al privato di esercitare un’influenza determinante.

Il requisito del capitale interamente pubblico è oggi disciplinato unicamente dall’art. 16, comma 1 del D.lgs. 175/2016, che stabilisce che “1. Le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto solo se non vi sia partecipazione di capitali privati, ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata.”. Secondo il Consiglio di Stato anche le norme regionali possono prevedere la partecipazione di soggetti privati a società “in house”, senza che queste perdano le loro caratteristiche (parere n. 2583/2018).

Di conseguenza, la partecipazione di soggetti privati al capitale delle società “in house” è in generale da escludere, salvo nei rari casi in cui una norma di legge, anche regionale, lo consenta (come, ad esempio, per le società che gestiscono le farmacie comunali), ma sempreché non siano attribuiti al socio privato poteri di controllo, diritti di veto o la possibilità di esercitare comunque un’influenza determinate sulla società “in house”.

Questa impostazione è stata confermata anche dalla Corte di Cassazione, Sez. Unite, che nella sentenza n. 3330/2019, ha escluso che una società possa qualificarsi “in house” qualora lo Statuto della stessa preveda la possibilità per soggetti privati di partecipare al capitale sociale (ciò, anche nel caso in cui a tale previsione non sia stato dato alcun seguito e il capitale sia sempre rimasto in mano pubblica). Sulla stessa linea il Consiglio di Stato (parere n. 1389 del 07/05/2019), che in questa materia non ammette interpretazioni diverse da quella strettamente letterale.

Il requisito della “prevalenza”

Relativamente al requisito della prevalenza, secondo orientamento giurisprudenziale costante, l’attività delle società “in house” non deve essere svolta “esclusivamente” nei confronti dell’amministrazione pubblica o nell’interesse esclusivo di essa, ma sarà sufficiente che l’attività sia svolta “prevalentemente” nei suoi confronti o nel suo interesse. L’art. 16, comma 3 del D.lgs. 175/2016 stabilisce che oltre l’80% del fatturato delle società “in house” deve essere effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico socio. La possibilità di operare in via residuale con i terzi fino al 20% del fatturato deve tuttavia essere prevista dallo Statuto della società e deve comunque permettere alla stessa di conseguire economie di scala e recuperi di efficienza, così come previsto dal comma 3-bis del richiamato articolo 16. Il vincolo dell’80% del fatturato non può essere derogato.

Il requisito del “controllo analogo”

Per quanto riguarda il requisito del controllo analogo, l’art. 2, comma 1, let. c) del D.lgs. 175/2016 lo definisce come la situazione in cui l’amministrazione esercita su una società un controllo analogo, appunto, a quello esercitato sui propri servizi, esercitando un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici, che sulle decisioni significative della società controllata.

Secondo giurisprudenza costante, si tratta di “una forma di eterodirezione della società, tale per cui i poteri di governance non appartengono agli organi amministrativi, ma al socio pubblico controllante che si impone a questi ultimi con le proprie decisioni” (vedi, Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 8028/2021). Quello che conta, affinché il requisito del controllo analogo sia soddisfatto, è che l’amministrazione pubblica eserciti nei confronti della società “in house” un controllo sostanziale di tipo preventivo, concomitante e successivo, anche attraverso la costituzione a livello comunale di un “comitato di controllo analogo”, composto da funzionari dell’ente, con il compito di verificare l’andamento della gestione e la congruità delle scelte degli amministratori con gli indirizzi e gli obiettivi assegnati dall’amministrazione pubblica.

In altre parole, l’ente pubblico socio non si deve limitare ad approvare il bilancio d’esercizio della società, ma ne deve indirizzare la gestione, in modo da incidere sui risultati economici e finanziari della stessa; questo può avvenire solo con la creazione di un “sistema di controllo” che preveda l’espressione di specifici indirizzi di gestione alla società “in house”, con l’obiettivo di verificare costantemente il perseguimento da parte della stessa delle finalità pubbliche e il mantenimento dell’equilibrio economico e finanziario della gestione, in modo da evitare perdite e situazioni di crisi aziendale, che potrebbero avere affetti negativi sul bilancio dell’amministrazione pubblica.

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